Quattro anni sono passati. Nessuno quasi più ne parla, se non qualche sparuto divulgatore scientifico. Un silenzio che accentua ancor più la sgradevole sensazione che tutto ciò sia accaduto un’era fa.
Pertanto, ancor più colpisce la documentazione per immagini dei momenti comportamentali di quel periodo. Della visione che avevamo della nostra quotidianità, ghermita e rattrappita dentro i lockdown. Una chiusura del corpo e dell’anima.
Ecco, il corpo dell’artista. Che nel caso della fotografia è portarlo là dove si esprime l’emozione, il moto estetico dell’anima (come a me piace definire la fotografia).
Chiuso. Segregato per giorni nello stesso luogo. Un’attitudine non consona alla natura umana in continua, spesso incomprensibile deambulazione. Affrettati ad una produzione abulica di moti a luogo. Il corpo dicevo, costretto a rimanere lì fermo per interminabili giornate.
La fotografia, allora, a insinuarsi nei momenti più intimi della nostra vita, altrimenti ritenuti privi di dettagliata attenzione e indagine: aprire una finestra il mattino; uscire per una breve passeggiata nel giardino sotto casa; andare al vicino supermercato di soppiatto, per lo stretto necessario con la dichiarazione in mano che si abitava lì vicino.
L’osservanza delle norme: la mascherina, il misuratore della temperatura corporea, gli avvisi dei divieti della comunanza. Spazi e luoghi improvvisamente vuoti riempiti di messaggi di animosa speranza: “Andrà tutto bene”.
Relazioni che si materializzavano solo sugli schermi dei computer e degli smartphone: la chat con la famiglia, con gli amici, con lo yogin di fiducia.
Il telelavoro, la teleconferenza. I workshop e le dirette dei contest su Instagram. Il mondo intero contingentato in piccole miniature visive sugli schermi a cantare inni e ballate.