Da che parte si incomincia a documentare luoghi e genti mai visti e incontrati prima? Non credo ci sia una regola, e nemmeno delle modalità da studiare a tavolino. È valso per quello che ho incontrato strada facendo; quello che più nell’istante del “clic” ha colpito la mia curiosità, l’estetica, l’emozione.
Era la primavera del 2019 che intrapresi il viaggio in Estremo Oriente. Ignari, pochi mesi dopo il Mondo avrebbe conosciuto una delle più gravi crisi pandemiche della storia moderna. Così, per me occidentale, fu abbastanza sorprendente incontrare in anticipo stili di vita inusitati. Che di lì a poco sarebbero entrati prepotentemente nel nostro modo di vivere quotidiano, sconvolgendo le nostre abitudini più comuni, le nostre relazioni.
Essendo il mio punto di vista (di fotografia) soprattutto antropologico, il primo incontro che ebbi con quelle popolazioni, ciò che più m’incuriosì fu la loro intransigente postura ad indossare abitualmente mascherine sul volto. Di protezione, propria e altrui. Ma la giustificazione più plausibile la legai alle critiche condizioni dell’inquinamento atmosferico, denominatore comune delle metropoli che ho visitato: Taipei, Shanghai, Beijing, Bangkok.
Ricordo bene quando la mattina del 16 aprile a Beijing, alle 5:43, l’indice di inquinamento (US AQI=180) era “red allarm-Unhealthy”. Mi ero destato di buon’ora per immortalare il levar del sole sopra lo skyline della capitale cinese; dall’ottavo piano dov’era la stanza dell’albergo immaginavo una vista stupefacente. Scostai la tenda e m’affacciai per scattare la fotografia: m’apparve uno scenario surreale.
L’aria era densa, di colore rossastro, tal quale l’iconica scenografia del film Blade Runner. Una coltre di nebbia rossiccia che mai si sarebbe diradata. Nemmeno quando salii sulla Grande Muraglia a ottanta chilometri a nord da Pechino. In effetti mi rammaricai parecchio quando, al ritorno, nel reportage non trovai alcuna fotografia che desse la giusta rilevanza scenica del luogo patrimonio UNESCO.