Erano le storie di mia madre, che mi facevano innamorare di Parma, di una nostalgia struggente. Quando per lunghi anni fummo esuli.
Lei era figlia di contadini della provincia, e ci allevò con il precetto del “vestí ‘dla fésta”. Per andare in paese: in chiesa la domenica o al mercato il sabato, alla sagra di Ferragosto. Per le feste comandate, e ossequiosamente alle cerimonie con i parenti: matrimoni, funerali, battesimi e cresime.
Un’ostentazione veniale, disposta con cura, per ben figurare, con dignità. Un guardaroba di pochi capi essenziali, che usciva dalle mani della sarta del paese. Che profumava dei fiori di lavanda seccati. Indumenti sobri, di un’eleganza senza tempo.
Senza moda, che non si sapeva cosa volesse dire. La sua migliore gioventù coincise con la vita grama dentro la guerra.
Ma non gli impedì di sognare come vestivano le signore di città. Con scanzonata ironia per leggero desiderio inespresso, figurava quelli che erano i canoni modaioli esagerati e appariscenti dei rutilanti anni del dopoguerra: “… ’na vésta con i fiorón [una veste disegnata di grossi fiori], … con i bòlón [con grossi pois]”.
Se poi sullo sfondo della passerella c’è Parma (la supponente elegante petite capitale) allora volentieri mi sono accomodato al bordo per curiosarne gli indizi. Con un pizzico di quella stessa ironia che piaceva tanto a mia madre.