È storia di un atto d’amore (fotografico) incondizionato. La mitica pellicola positiva a colori di Kodak, per molti appassionati della fotografia, tra gli anni Settanta e Ottanta del ‘900, rappresentò uno dei passaggi nodali per la cura della propria passione.
Ottenere stampe a colori in proprio era ancora complesso e costoso. Per quanto la poetica instillata dalle immagini in b&w non si discutesse, eravamo un po’ annoiati dei lenti riti dei processi di sviluppo e stampa; così volemmo uscire dalla monocromia della camera oscura.
E improvvisamente ci apparve un mondo a colori (in Technicolor come recitavano i titoli di coda dei film), assaporandone il gusto eccitante del contrasto: delle cose, dei paesaggi. Un appagamento dello sguardo fotografico come in altri modi non riuscivamo cogliere.
Tinte cariche, sature, dalle forti tonalità. L’opposto dell’intento “pittorialistico” del mondo dalle tinte pastello che i fotoamatori anziani, volenterosi e irremovibili, volevano convincerci.
Da quel momento il colore fu storia dentro l’immagine, oltre il soggetto. Avido di quei risultati ricordo accumulai in fretta alcune scatoline di dia sforbiciate e intelaiate, che rimiravo davanti ad una lampadina, prima di potermi comperare il proiettore.
Che dopo lo scatto e lo sviluppo del negativo per vedere la fotografia esageratamente ingrandita e dai colori cangianti non si dovesse più passare dalla camera oscura, fu un’improvvisa meraviglia a portata di mano.